04 novembre 2012

 

Last but not least

Il resoconto dell’esperienza di Dublino, dalla pelle al cuore

di Matteo Di Donato e Amedeo Votto

Decollo. Dal finestrino la città quasi non si vede. È un caos multiforme di colori senza scritte, spazi senza posti, persone senza volti. Man mano che si sale si spengono le luci, il silenzio si scopre tra le nuvole. Gli occhi parlano da soli. I ricordi prendono quota, sopra la terra, sotto la pioggia. Affianco i compagni di venti giorni di avventure, le certezze della vita, gli abbracci che non fanno mai paura. Il cielo d’Irlanda non è mai stato così bello.

Ci sarebbe tanto da raccontare. Le consapevolezze raggiunte, la maturità acquisita, oltre le competenze, la conoscenza del diverso (modo di pensare) e della diversità nell’essere persone. Quello che conta sono le esperienze, i frammenti di vita strappati alla normalità e destinati alla trepidazione di scoprire. La formazione e la ricerca della propria personalità, la crescita individuale, sperimentare a 360° gradi oltre la banale consequenzialità. Dublino, per metonimia, è stato questo. È stato luogo di incontri e di confronti, di progetti in difesa dell’ambiente, di lezioni e conversazioni sul campo, di interviste e socializzazione. Di attività laboratoriali e interattive, visite guidate in atmosfere inconsuete, dalle cascate nascoste su per le colline ai cimiteri elegiaci cantati dai poeti. Perché l’Irlanda è pur sempre la patria di Swift, Joyce, Yeats, Moore, Burke ed Oscar Wilde.

Da cittadine medievali al Guinness Store, dal Trinity College al National Museum, passando per il muro degli U2, per i pub dalla musica irlandese, tra la costa e il mare, tra l’antico e il moderno, in stadi, parchi, teatri e centri commerciali con griffe altisonanti, un excursus dalle mille sfaccettature.

Dalla pelle al cuore quanto vissuto, le amicizie formatesi, le risate, i pianti, i sorrisi, le delusioni, le nostalgie, le chiacchierate a notte fonda, i lavori di gruppo, le uscite a Temple Bar, nella Dublino che vive e pullula di giovani. Oltre l’esperienza, quello che rimane: la responsabilità di curare e conoscere se stessi.

 Quello che rimane:

 “Un’ondata di gioia, in un attimo un fuoco di stelle, una bolla di vita insieme. Basta qualche viaggio in ascensore, su e giù, chiudersi alle spalle una porta, in silenzio. Soltanto così s’impara. S’impara la gente, non le persone. È così che ci si riconosce, nell’intimità mascherata di un istante.*

Solo un occhio di bue. Trenta battiti, quindici voci, altrettanti respiri. Volti mai stanchi indugiano nel distogliere lo sguardo per non perdersi qualsiasi cosa valga la pena ricordare. Dublino è oramai lontana: solo l’eco del vento che s’intrufola e si stampa addosso come l’inchiostro sulla carta pressata. E poi, di nuovo, dalla pelle al cuore, in un unico tratto, riporta alla vita la briosità di un tempo ormai passato, di mani piene di storie, di piedi pieni di strade, di tasche piene d’amore.

Dieci numeri ci separano dall’affetto materno, pochi passi dal suolo natale. Non più di una favilla, fioca, flebile si erge all’orizzonte mista a sogni e speranze. Quelle che ci portiamo dentro, addosso, trascinandole dietro senza fatica, perché non pesano più di una farfalla. E come questa, volano leggere nell’aria, librandosi nella volta dell’abisso, per riaffiorare quando se ne ha bisogno. Il cielo d’Irlanda ne è colmo, certo. Ogni nuvola che s’addensa, ogni grinza che si ammucchia è un desiderio che s’aspetta di essere avverato. Magari per sempre, magari da sempre.

Da sempre aspettiamo di poter ritornare finalmente a casa, meno adolescenti e sempre più uomini. È successo, senz’ansia, ineluttabilmente perfetto, nella sua camaleontica attesa.”

Grazie Telesi@

Dublino 2012

* Non la chiamare gente, sono persone, una per una. *