Decollo. Dal finestrino la città quasi non si
vede. È un caos multiforme di colori senza
scritte, spazi senza posti, persone senza volti.
Man mano che si sale si spengono le luci, il
silenzio si scopre tra le nuvole. Gli occhi
parlano da soli. I ricordi prendono quota, sopra
la terra, sotto la pioggia. Affianco i compagni
di venti giorni di avventure, le certezze della
vita, gli abbracci che non fanno mai paura. Il
cielo d’Irlanda non è mai stato così bello.
Ci
sarebbe tanto da raccontare. Le consapevolezze
raggiunte, la maturità acquisita, oltre le
competenze, la conoscenza del diverso (modo di
pensare) e della diversità nell’essere persone.
Quello che conta sono le esperienze, i frammenti
di vita strappati alla normalità e destinati
alla trepidazione di scoprire. La formazione e
la ricerca della propria personalità, la
crescita individuale, sperimentare a 360° gradi
oltre la banale consequenzialità. Dublino, per
metonimia, è stato questo. È stato luogo di
incontri e di confronti, di progetti in difesa
dell’ambiente, di lezioni e conversazioni sul
campo, di interviste e socializzazione. Di
attività laboratoriali e interattive, visite
guidate in atmosfere inconsuete, dalle cascate
nascoste su per le colline ai cimiteri elegiaci
cantati dai poeti. Perché l’Irlanda è pur sempre
la patria di Swift, Joyce, Yeats, Moore, Burke
ed Oscar Wilde.
Da
cittadine medievali al Guinness Store, dal
Trinity College al National Museum, passando per
il muro degli U2, per i pub dalla musica
irlandese, tra la costa e il mare, tra l’antico
e il moderno, in stadi, parchi, teatri e centri
commerciali con griffe altisonanti, un excursus
dalle mille sfaccettature.
Dalla pelle al cuore quanto vissuto, le amicizie
formatesi, le risate, i pianti, i sorrisi, le
delusioni, le nostalgie, le chiacchierate a
notte fonda, i lavori di gruppo, le uscite a
Temple Bar, nella Dublino che vive e pullula di
giovani. Oltre l’esperienza, quello che rimane:
la responsabilità di curare e conoscere se
stessi.
Quello che rimane:
“Un’ondata di gioia, in un attimo un fuoco di
stelle, una bolla di vita insieme. Basta qualche
viaggio in ascensore, su e giù, chiudersi alle
spalle una porta, in silenzio. Soltanto così
s’impara. S’impara la gente, non le persone. È
così che ci si riconosce, nell’intimità
mascherata di un istante.*
Solo un occhio di bue. Trenta battiti, quindici
voci, altrettanti respiri. Volti mai stanchi
indugiano nel distogliere lo sguardo per non
perdersi qualsiasi cosa valga la pena ricordare.
Dublino è oramai lontana: solo l’eco del vento
che s’intrufola e si stampa addosso come
l’inchiostro sulla carta pressata. E poi, di
nuovo, dalla pelle al cuore, in un unico tratto,
riporta alla vita la briosità di un tempo ormai
passato, di mani piene di storie, di piedi pieni
di strade, di tasche piene d’amore.
Dieci numeri ci separano dall’affetto materno,
pochi passi dal suolo natale. Non più di una
favilla, fioca, flebile si erge all’orizzonte
mista a sogni e speranze. Quelle che ci portiamo
dentro, addosso, trascinandole dietro senza
fatica, perché non pesano più di una farfalla. E
come questa, volano leggere nell’aria,
librandosi nella volta dell’abisso, per
riaffiorare quando se ne ha bisogno. Il cielo
d’Irlanda ne è colmo, certo. Ogni nuvola che
s’addensa, ogni grinza che si ammucchia è un
desiderio che s’aspetta di essere avverato.
Magari per sempre, magari da sempre.
Da
sempre aspettiamo di poter ritornare finalmente
a casa, meno adolescenti e sempre più uomini. È
successo, senz’ansia, ineluttabilmente perfetto,
nella sua camaleontica attesa.”
Grazie Telesi@
Dublino 2012
*
Non la chiamare gente, sono persone, una per
una. * |