Dalla mappa concettuale diacronica che qui
presentiamo (Fig. 1), si evince quali
innovazioni il dpr 275/99 e il novellato Titolo
V (2001) hanno apportato al nostro Sistema
nazionale educativo di istruzione e formazione.
Prima del ’99 vigeva un processo lineare
verticale, che potremmo definire a cascata. Il
Ministero per la Pubblica Istruzione (Mpi)
emanava i “suoi” Programmi, a cui le unità
scolastiche dovevano semplicemente attenersi:
pertanto, gli studenti che “rispondevano” ai
contenuti di cui ai Programmi erano promossi,
gli altri bocciati. Con le innovazioni suddette
si è voluta cancellare tale linearità per dar
vita a un vero e proprio sistema in cui diversi
soggetti istituzionali autonomi dovrebbero
svolgere funzioni diverse, anche se strettamente
correlate. Il Mpi cessa così di essere il primo
e indiscusso interlocutore e diventa un soggetto
i cui compiti dovrebbero essere essenzialmente
di indirizzo, orientamento, determinazione delle
risorse, valutazione. Non dovrebbe più erogare
Programmi, ma limitarsi a dare semplici
Indicazioni, che le istituzioni scolastiche
nella loro autonomia dovrebbero tradurre in
curricoli.
Fig. 1
![](foto/tiriticco18_all1.jpg)
L’innovazione, inoltre, affidava alle
istituzioni scolastiche compiti nuovi, che
andavano oltre la semplice istruzione
(conoscenza da parte degli alunni di precisi
contenuti disciplinari): loro compito dovrebbe
essere anche quello di educare (il cittadino) e
di formare (la persona): un ampliamento di
orizzonte e di impegno che avrebbe dovuto
garantire a ciascun alunno il suo personale
“successo formativo” (vedi art. 1, c. 2 del dpr
275/99). Assumemmo anche l’impegno che nessun
alunno potesse uscire dal sistema di istruzione,
educazione e formazione se non avesse conseguito
almeno una qualifica entro il 18° anno di età.
Com’è noto, la formazione professionale
regionale attribuisce la prima qualifica ai 17
anni di età, corrispondente al secondo livello
dell’EQF. Altre competenze venivano affidate
alle Regioni e agli Enti Locali, ed è anche noto
che su questa tematica e su quella
dell’individuazione dei Livelli essenziali di
prestazione (Lep), di competenza dello Stato, la
discussione è ancora aperta e riguarda la
difficile prospettiva federalista.
A
dieci anni da tali profonde innovazioni
istituzionali, il nuovo sistema delle Autonomie
è entrato a regime? I soggetti coinvolti nella
operazione hanno trovato ciascuno il suo ruolo?
A mio vedere, no! Ne fa fede il fatto che le
Indicazioni nazionali relative al secondo ciclo
di istruzione prodotte negli ultimi mesi da
questo governo sono un insieme di documenti che
si sviluppano per centinaia di pagine, spesso di
difficile lettura, ora ripetitive, ora
contraddittorie; non riescono a centrare quali
sono le finalità che vengono proposte alle
istituzioni scolastiche e le competenze che gli
studenti devono acquisire. A fronte di un
cambiamento di orizzonte così impegnativo –
trasformare una scuola centrata da sempre sulle
conoscenze a una suola centrata sulle competenze
– le Indicazioni sono assolutamente
insufficienti, ora sovrabbondanti, ora
imprecise, e purtroppo finiscono con l’essere
ben più vincolanti dei vecchi Programmi!
Il
momento è quindi molto difficile! La società che
molti chiamano della conoscenza impegna i
sistemi di istruzione a formare persone che
conseguano competenze tali che permettano loro
di far fronte a un mercato del lavoro sempre più
complesso e difficile, e di possedere tutti
quegli strumenti che permettano loro di leggere
e comprendere un mondo che si fa sempre più
complesso. Purtroppo, com’è noto, appena un
terzo degli italiani possiede una competenza
linguistica funzionale!
In tale situazione, se vogliamo cambiare il
Paese in materia di istruzione, dobbiamo
muoverci su due fronti: da un lato, tallonare il
governo e il Miur punto per punto, perché il
processo dell’autonomia esca dalle secche in cui
è stato cacciato e riprenda il suo corso;
dall’altro, sostenere concretamente scuole e
insegnanti a operare per conquistare passo dopo
passo quell’autonomia che di fatto non si vuole
loro né riconoscere né concedere.
La
realizzazione dell’autonomia è strettamente
legata a un modello di scuola che non può essere
dettato dall’alto.
Lo
Stato dovrebbe limitarsi a dettare le norme
generali sull’istruzione e i Lep. In effetti, le
Indicazioni del secondo ciclo sono un insieme di
documenti sovrabbondanti, fortemente assertivi e
non sempre tra loro correlati; le Indicazioni
per il primo ciclo sono ancora allo studio nelle
stanze del Miur. La determinazione dei livelli
essenziali delle prestazioni che Regioni ed Enti
locali dovrebbero erogare al fine di evitare
disuguaglianze sul territorio nazionale in
materia di soddisfazione del diritto
all’istruzione è ancora una materia in fieri.
Pertanto, le due condizioni fondamentali per
l’avvio di un rigoroso e produttivo processo
autonomistico non sono a tutt’oggi soddisfatte.
In
tale situazione di incertezza, c’è un solo punto
fermo: le competenze terminali del ciclo
obbligatorio (dm 129/07 e 9/10) che dal prossimo
giugno le nostre scuole dovranno certificare. Ma
ciò è insufficiente, se vogliamo ragionare in
un’ottica di sistema. Perché anche le competenze
terminali del secondo ciclo (augurandoci che
possa concludersi ai 18 anni di età) vanno
individuate e definite. Insomma, tutte le
strategie di insegnare/apprendere che ci vengono
da un lontano passato vanno assolutamente del
tutto rinnovate. La nostra scuola ha
attraversato tre stagioni (Fig. 2).
Fig. 2
La
prima è quella in cui sono centrali
l’apprendimento dei contenuti descritti nei
Programmi ministeriali e la valutazione delle
conoscenze che tali contenuti implicano. Con
l’avvio della scuola cosiddetta “di massa”, nel
primo ciclo di istruzione l’attenzione viene
spostata alle abilità, cioè all’utilizzo delle
conoscenze acquisite; la valutazione decimale
era assolutamente inadatta a valutare tali
abilità, per cui venne sostituita con la
cosiddetta valutazione di criterio. Va
sottolineato, però, che tale innovazione non ha
interessato il secondo ciclo se non in casi di
sperimentazioni avanzate. Con il Terzo
millennio, e con tutto ciò che si è verificato
nel mondo delle conoscenze, della ricerca, del
lavoro, con la necessità di doverci misurare con
altri sistemi di istruzione più avanzati del
nostro e con quanto ci chiede e attende l’UE, si
è compiuto (o meglio, si dovrebbe effettivamente
compiere) un nuovo passaggio: l’acquisizione di
competenze, che il soggetto spenderà negli studi
ulteriori, nel mondo della cultura, delle
professioni e del lavoro, nonché nelle
interazioni con altri soggetti. Si tratta di un
passaggio veramente epocale, anche perché, per
quanto concerne la valutazione, né quella
decimale né quella di criterio sono adeguate.
Una competenza c’è o non c’è e, se si accerta,
si certifica.
In
tale scenario dovrebbe entrare in gioco, da
parte del collettivo degli insegnanti, tutta
un’attenta attività di osservazione continua,
stimolo, rinforzo, che conduce alla
certificazione finale. È necessario considerare
che un cambiamento di rotta così radicale
richiede una innovazione profonda del
complessivo Sistema educativo nazionale di
istruzione e formazione, innovazione che la
“riforma epocale” della Gelmini non può affatto
garantire.
A
un ministro che ci sollecita a promuovere il
“merito” dobbiamo solo rispondere che tutti i
soggetti in apprendimento sono meritevoli,
ciascuno secondo le sue capacità. Appartiene al
nostro passato la scuola che promuove i
“meritevoli” e boccia gli “immeritevoli”. Nel
nostro futuro deve esserci una scuola che
promuove il “successo formativo” di ciascuno e
per ciascuno. Le nostre ideali “linee guida”
devono essere i quattro pilastri dell’educazione
di un Delors (anni Novanta) e i sette saperi
necessari all’educazione di un Morin (anni
Duemila)!
link:
http://www.educationduepuntozero.it/politiche-educative/scuola-oggi-scuola-domani-3074916452.shtml#commBtTool
|